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 mostre/exhibitions 

L'ARTE SEPOLTA

Matteo Vesentini, detto "El biondo"

Uno degli spazi più insospettabili della provincia della creatività ha chiuso definitivamente i battenti. La casetta, gestita dai fratelli Castaldelli, è stato un luogo che ha associato l'improbabile, riuscendo nel tentativo di coniugare arte, equitazione, enologia, musica, storia e poesia. Ci si accedeva solo su invito ed ogni sera valeva i chilometri a scorgere i profili delle case, nelle fitte brume che avvolgono il Menago.

È in quella dimora di fine settecento che negli anni hanno soggiornato e creato i cugini Vesentini. Alberto, ebanista e scultore ligneo di talento, dotato di profonda sensibilità nel rendere vita al legno, che plasma secondo le forme della natura di quei luoghi. Matteo invece ci ha dipinto, elettrizzando uno dei periodi più floridi dell'arte sepolta. Sì, perché solo visitando quelle corti sperdute e le poderose proporzioni architettoniche, prendendo parte alle pesche notturne, agli inarrivabili ragli, nella dimensione assolata dell'intelligenza viva che si sprigiona al di fuori delle convenzioni, si può comprendere il valore di ciò che vi è stato creato. Ho fatto parte di quel luogo per tre lustri e sin dalla prima visita mi ero ripromesso di organizzare una personale di Matteo Vesentini (El Biondo). L'occasione si fa ora realtà e sono orgoglioso di divulgare il lavoro di questo pittore, che gode della mia stima e del mio interesse. Dal primo sguardo è evidente come El Biondo con le sue pennellate spesse, senza sfumature, colori accesi e contrastanti, composizioni di assoluta e tranquilla pace agreste, sconvolte da una tavolozza immediatamente riconoscibile, sicuramente d'impatto, ma mai chiassosa, sia figlio di quel bisogno ancestrale di farsi largo nelle caligini, di quel registro art brut che non conosce epoche e che si smarca velocemente dalla definizione stessa, per sconfinare ovunque l'ispirazione orgogliosamente non imbrigliata lo conduca. Anche per questo i ritratti di Vesentini sono, anche se riconoscibili, molto differenti dal suo lavoro su flora e fauna; pur mantenendo, infatti, le cifre stilistiche che lo contraddistinguono, rimandano alla pittura popolare delle montagne del nord est (specie nel periodo tra le due guerre) lanciando un inatteso ma graditissimo gancio alla pittura murale cubana, e alle scene dell'arte religiosa d'oltre cortina negli anni settanta. Ed è così che i due filoni ben rappresentati da Le oche a riposo e La deposizione di Cristo si incontrano in Capodanno insieme. I volti deformati da allegria e intensità espressiva riprendono le linee dei frutteti allineati e illuminati dalla Luna, la composizione fotografica del gruppo sfugge velocemente dalle regole immobili e stagnanti dell'autoscatto, donando un vibrato dinamico e incessante, il medesimo della folla che incornicia la centralità della deposizione del Cristo, per sfociare in una necessità di vita, arte, intuito e provocazione, che resteranno impresse così nelle tele, come in ognuno abbia avuto il privilegio di viverle in quelle notti.

Il curatore

Sandro Fracasso

LA TRAPPOLA FELICE

Adriano Benocci - Collages

Quando può definirsi felice una trappola? Evitando una personificazione dell'oggetto, ci si dovrà rifare al suo senso intimo, allo scopo. Quindi saranno lo scopo della trappola e di rimando il suo esito, gli attuatori della felicità specifica.

L'imboscata silenziosa di Adriano non è una tagliola vigliacca e nemmeno una buca coperta da sterpaglie, o un'imboscata, e qui mi fermo, perché definire scontornando in questo caso risulterebbe sfiancate. Il punto è che nella sua non definizione si realizza la felicità della trappola dell'autore. Si badi bene “non definizione” non è intesa nel senso di indefinizione, quanto in quello di apertura comunicativa e mediatica.

La metafora cinematografica aiuterà a cogliere ciò che i lavori rappresentano. Pensate di avere nella stessa stanza Buñuel, Carpenter, Lynch e che prendano a litigarsi l'unica macchina da presa. Immaginateli sudare e schiantarsi contro un'immagine di sé precaria e sconsolata senza lo strumento a disposizione: l'urgenza espressiva è evacuativa. Infine, giungono alla più classiche delle tregue e si turnano al comando delle riprese, collaborare mai, ma senza questo armistizio c'è un unico esito funesto: la stipsi creativa.

Nell'attesa, per non pestarsi i piedi, ma anche per tenersi caldi, hanno a disposizione, carta forbici, riviste, pennelli, lapis, colla vinilica e tanto caffè. Allora a qualcuno, chissà forse a Bunuel, viene in mente Braque e i suoi primi collage, e la passione per gli oggetti da taglio e il bianco e nero si fanno commistione e registro. Il risultato è talmente affascinante che Lynch molla la macchina con qualche secondo di anticipo – lasciandoci una di quelle immagini fisse, nella e della quale cerchiamo un senso intimo- per introdurre i colori e la geometria, tanta, solida, ubiquitaria, a sfidare quella asciutta di una natura decisamente montuosa, desertica e dunosa. È un lampo e Carpenter gli è alle spalle, la macchina da presa è libera, eppure nessuno sembra curarsene; litigano in un groviglio creativo per quei ritagli di carta, si contendono, la colla, il caffè, l'ossigeno che stenta a tenersi in equilibrio con l'azoto, su quello scampolo di tavolo nel sottotetto. Ne escono un “papino” di spalle mentre sparano alla sacra sindone stellare, una tizia che ha un tal mal di schiena da schiantarsi, una nuova visione di metrosexual (talmente metro da aver solo palazzi in faccia), che provoca la fulminea risposta ambientalista dell'homo green. Le quote rosa, odiose ai Nobel, qui sono ampiamente rispettate; si impone per numero una moltitudine di donne: volanti, scollate, sfacciate, peccettate e bellissime. Eh sì, la trappola ha funzionato, e con lei i molti film visti ogni notte, guardando fuori da una finestra che non è mai stata, fortunatamente, abbastanza.

 

Il curatore

Sandro Fracasso

INVIDIAMO SECOLI RIVOLUZIONARI - Anna Bergamini Solo Show

Anna Bergamini vive a Ferrara dove ha il suo studio in via delle Volte. Pochi la conoscono e come fatto non sarebbe scusabile, se non fosse per l'imperturbabilità a volte seccante della bella ed elegante Ferrara. Eppure l'opera di Anna ha subito nelle ultime tre decadi un percorso minuzioso e progressivo che è arrivato a seminare gemme grezze di inchiostro e pastello su campi di carta tagliata a mano e faesite. Le fiabe che si inventa e che fanno da accompagnamento alle incisioni sono incursioni sferzanti nel suo mondo irriverente e profondo, che allo stesso tempo vuole condividere e preservare.

Di chi è un'opera comperata?

Pare la solita domanda stupida, ma in questo caso mi è parso che la stessa artista abbia al contempo provato a cedere le proprie opere, ma anche a difenderle da chi non le volesse davvero, da chi non le sapesse accogliere. Altrimenti non si capisce come mai siano all'improvviso oggetto di interesse e non solo a Ferrara.

Da anni il mercato dell'arte si è rivolto all'informale, e chi non aveva più molto da dire (gli spompati), chi si affacciava per primo alle vendite (gli spavaldi) e chi non conosceva l'anatomia (i pessimi) si sono buttati nel calderone dei professionisti. Qualcuno a volte ce l'ha pure fatta. Sotto, nell'infrattanto, si è ingrossato un fiume di acquirenti normali che punta al figurativo colorato e ben caratterizzato. Non si parla di grandi cifre, ma comunque bastevoli per lavorare.

Anna Bergamini parte dal medioevo sottostimato e sconosciuto e va a riacciuffare i fiamminghi (si veda il mulino di “Baba Jaga” e lo si raffronti con quelli delle incisioni di Brueghel). Anna Bergamini incide grotteschi erotici con una tale leziosa intensità da farci accettare come canone l'assurdo. Anna Bergamini ritrae nature morte in carne ed ossa, fiabe arcinote come andrebbero lette se non fossimo vittima di un clericalismo opprimente; vive rinchiusa nel suo studio, perché fuori quelle come lei le bruciavano o le facevano papesse. In fondo non sono sicuro di farle questo enorme piacere parlando del suo lavoro, lo faccio solo perché altrimenti si perderebbe nel nulla una nuova occasione di liberarci della sensazione di mediocre dell'arte che ci circonda in questi anni. Lo faccio consapevole del fatto che lei sa benissimo come difendersi, del resto il campanello dello studio è rotto.

Per chi volesse vederla ancora dopo la bella mostra curata da Carlo Bollani a Ferrara, ci sarà l'occasione di farlo nel 2016 da noi in Toscana a Casa là farm gallery. (consiglio di abbinare quadri da un'esposizione di Modest Musorgskij).

 

 

Sandro Fracasso

METAMORFOSI DI UNA FRONTIERA - Matt Anzak solo show

 

Nel secolo scorso, prima delle fobie costruite ad arte e degli attentati fin troppo mirati, il problema dello spostamento era viaggiare da un posto all'altro. Contava quanto si distasse dalla meta, non quanto si dovesse essere controllati, frugati e offesi dal sospetto. Allora c'erano treni che univano l'Europa, navi che rendevano gli Oceani piscine e quei meravigliosi ritardatari che arrivavano correndo all'ultima chiamata di imbarco. Ora ci sono file, corpi sudati o infreddoliti e comunque esausti. Quando viaggiamo sembriamo sempre più un quadro di Hieronymus Bosch.
Anzak è un cognome che suona armeno e il sangue conta almeno per metà per un artista. L'altra metà di Matt è il viaggio e il conseguente aggrapparsi tipico delle cose che non dimentichiamo alla frontiera. Appare da subito chiaro come le tre opere che l'artista texano ci ha affidato appartengano a periodi diversi della sua creatività e di questo gli siamo grati; ci permettono infatti di apprezzare da subito l'insieme di tecnica e architettura che animano la sua arte. La tavolozza oscilla tra Klee e Kandiskj, con ammirevoli incursioni precolombiane. Si notano le numerose esperienze francesi nei suoi riferimenti a Matisse (nelle sagome delle figure e nei cromatismi sfumati). Di certo si viaggia verso est, anche se degli Stati Uniti si hanno elementi molto chiari nella tecnica pittorica (con spruzzate di action painting, Modular I) e nella struttura dei supporti che denota scarso timore nel mostrare lo scheletro robusto. Sono anni di crisi e anche l'arte cerca conferme nella solida durabilità. Noto in Poliphemus più la osservo, reminiscenze delle avanguardie bulgare degli anni settanta. Le pennellate, i colori e la dimensione lugubre dei chiaroscuri mi ricordano gli affreschi visitati in una chiesa di Veliko Tarnovo, le ampie vetrate incapaci di risollevare dal senso cupo di labirinto mentale e fisico. In Lost Matt Anzak tocca il tema della fuga dei popoli dalle loro terre, la composizione delle tre tele è molto cruda ma non remissiva: in una, alcune catene incorniciano un fiore che ottimisticamente non appassisce. Anche il sole, relegato in un angolo della tela principale, con la sua intensità sudamericana non sembra essere impensierito dalle nubi che lo circondano. Ad esso infatti si rivolge un occhio languido e collettivo, nel disperato tentativo di guadagnare una tregua dalla violenza che pervade il resto dell'opera. Il terzo settore è dominato da una sensazione eterea seppure inquietante: raffigura una danza di anime che sovrasta un recinto rosso e tortuoso. Il messaggio finale pur nel predominio della nota violenta e disgregante è di fede e apertura. Non voglio individuare alcun elemento profetico nell'arte di Matt Anzak, ogni azione di massa descritta in un preciso istante potrà prima o poi avverarsi: è tutta questione di tempistica e casualità. Gli riconosco comunque un pieno gusto dell'umano, dote imprescindibile per un artista empatico.

 

Sandro Fracasso

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